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Il saluto a Franco, che è stato per tutti noi una sorpresa lunga ventuno anni. Inaugurata la targa che lo ricorda.


La benedizione della targa dedicata a Franco
La benedizione della targa di Franco Ferrari nella sala da pranzo della comunità psichiatrica CPM

Come ogni dicembre, nelle nostre due comunità si tiene il tradizionale "Pranzo con i parenti". Ogni ospite ha l'opportunità di invitare un familiare, un parente o un amico, condividendo insieme a loro e agli operatori un momento speciale di convivialità.


Quest'anno, nella nostra Comunità psichiatrica CPM, abbiamo trasformato il grande open space della sala da pranzo e del soggiorno per accogliere ben novanta persone! L'evento è stato anche un'occasione per ricordare con affetto il nostro caro Franco Ferrari, a cui abbiamo dedicato la sala da pranzo della comunità. Una targa con il suo volto ricorda a tutti noi il suo affetto e il legame speciale che ha creato con questa realtà.

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Durante il discorso e la benedizione della targa, il coordinatore educativo della CPM Mauro Gavazzi ha detto: «Franco è mancato l'11 settembre di quest'anno, a causa di un problema di salute improvviso; era con noi da ventuno anni ed era diventato una presenza famigliare per tutti noi. Qualche anno fa, quando qualcuno gli ha chiesto cosa significasse per lui vivere in comunità, ha risposto: "la comunità è un antidoto alla solitudine". Sulla targa c'è una fotografia che lo ritrae sorridente, in una delle vacanze sulla neve che abbiamo fatto insieme, in Friuli, negli anni scorsi. La sua scomparsa ci ha colti di sorpresa, quasi non fosse possibile che potesse accadere di restare senza di lui. Ma, a pensarci bene, tutti questi ventuno anni, vissuti con la discreta e silenziosa compagnia di Franco, sono stati una bella sorpresa. Sono qui presenti, e li ringrazio, i famigliari di Franco, ai quali chiedo di condividere con noi un pensiero su come loro hanno vissuto questi ventuno anni».

Leggi l'intervento completo di Mauro Gavazzi

La giornata di oggi è un gesto semplice, che riproponiamo ogni anno: un pranzo insieme, la possibilità di un dialogo tra noi. "Pranzo di Santa Lucia" lo abbiamo chiamato fin dalla sua prima edizione, ormai circa vent'anni fa. Lo abbiamo chiamato così per l'approssimarsi della ricorrenza di Santa Lucia che porta tanti doni. E per noi questa giornata è proprio un dono: il dono di una compagnia, di un abbraccio, di un conforto nel nostro cammino.


Quest'anno vogliamo cominciare ricordando Franco, che è mancato l'11 settembre di quest'anno, a causa di un problema di salute improvviso. Era con noi da ventuno anni. Dopo un programma di cura in comunità, di circa tre anni, ha vissuto in alcuni appartamenti della nostra cooperativa fino alla sua scomparsa. Era diventato una presenza famigliare per tutti noi. Aveva raggiunto una sua stabilità e autonomia pur restando sempre legato alla realtà della nostra cooperativa. Spesso tornava a Milano a fare visita ai suoi famigliari per poi rientrare nel proprio appartamento, poco lontano dalla sede della nostra comunità.


Qualche anno fa, quando qualcuno gli ha chiesto cosa significasse per lui vivere in comunità ha risposto: "la comunità è un antidoto alla solitudine". E, con la gratitudine e riconoscenza che traspaiono da queste sue parole, ha sempre vissuto questi ventuno anni tra noi. Nel silenzio e con profonda umiltà, è stato in grado di contribuire in modo determinante alla gestione autonoma (seppur sempre guidata e monitorata dagli operatori della cooperativa) dell'appartamento che ha condiviso negli ultimi anni con altri tre, a volte quattro, ospiti. Particolare il legame, divenuto fraterno, con Pietro, un nostro ospite, con cui ha condiviso gran parte di questi ventuno anni. E proprio a Pietro, che oggi è qui con noi, si è rivolto quando si è sentito male, quella notte alla fine dell'estate appena trascorsa.


Mi chiamava spesso al telefono cominciando sempre con la domanda: "come stai?". Le sue telefonate erano spesso funzionali ad alcune richieste, sempre poste con discrezione, ma contenevano sempre il desiderio di un contatto umano semplice e sincero. Non mi preoccupavo mai quando era lui a chiamarmi perché conoscevo la sua pacatezza e dolcezza nel porre qualsiasi questione.


Ci piace ricordarlo nel suo impegno nelle attività che gli abbiamo proposto; impossibile dimenticare l'attività di teatro, in cui è stato tra i primi e più fedeli partecipanti e sostenitori, sempre insieme al suo compagno "fraterno" Pietro. Non dimenticherò mai i primi colloqui, in cascina, nel 2003, per capire se potevamo accoglierlo nella nostra comunità psichiatrica che aveva appena aperto. Mai mi sarei aspettato che la storia che stava per aprirsi sarebbe durata così a lungo. Una storia di libertà raggiunta restando legati ad un contesto che Franco ha riconosciuto come compagnia per il suo cammino. Ricordo sempre con simpatia e commozione gli articoli che abbiamo scritto insieme per il "giornale" della nostra cooperativa, che avevano, come filo conduttore, il ricordo della sua infanzia e giovinezza. Lui parlava e io scrivevo, divertito, gli aneddoti che lui raccontava, citando i nomi e cognomi delle persone e descrivendo nel dettaglio i luoghi in cui avvenivano i fatti che ricordava. Avevamo chiamato questa serie di articoli "Via Vignola" dal nome della via di Milano dove ha vissuto fino a prima di arrivare da noi; una via che ricorreva spesso nei suoi racconti.


Tra poco scopriremo e benediremo una targa in ricordo di Franco a cui vogliamo dedicare la sala da pranzo e soggiorno della nostra Comunità. È presente con noi don Massimo, parroco di Castegnato, che ringraziamo e che si è reso gentilmente disponibile per la benedizione. Sulla targa c'è una fotografia che ritrae Franco sorridente, in una delle vacanze sulla neve che abbiamo fatto insieme, in Friuli, negli anni scorsi. La sua scomparsa ci ha colti di sorpresa, quasi non fosse possibile che potesse accadere di restare senza di lui. Ma, a pensarci bene, tutti questi ventuno anni, vissuti con la discreta e silenziosa compagnia di Franco, sono stati per tutti noi una bella sorpresa e, come spesso mi accade, insieme ad un sentimento di gratitudine, mi rimane il rammarico del fatto che avrei potuto dare alla compagnia di Franco ancora più valore e ascolto.


Sono qui presenti, e li ringrazio, i famigliari di Franco, ai quali chiedo di condividere con noi un pensiero su come loro hanno vissuto questi ventuno anni.


Mauro Gavazzi

Franco: «La comunità è un antidoto alla solitudine»
Franco Ferrari, nella fotografia durante una vacanza in Friuli alcuni anni fa
Franco Ferrari, nella fotografia durante una vacanza in Friuli alcuni anni fa

Carlo Ferrari, nipote di Franco, ha voluto condividere un pensiero. Riportiamo il suo toccante intervento per intero, ringraziandolo ancora per le belle parole e per l'affetto dimostrato.


Buongiorno a tutti e grazie per questo invito speciale. Nella storia dello Zio Franco e della nostra famiglia, con lui esistono un prima e un dopo. Il “prima” è quella fase che io ho osservato crescendo in cui i miei genitori hanno fatto di tutto perché la malattia, l’oscurità e la confusione non avessero il sopravvento, senza mai mollare. Il “dopo” inizia con l’ingresso dello Zio in questo luogo e l’unione del lavoro dei miei genitori al vostro. È da quel momento che il bello e il buono dello zio, che ci sono sempre stati, hanno potuto mettere radici e fiorire.

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Di questi ventun anni condivido due flash che sono quelli che più mi restano in mente: la prima foto dello Zio in legatoria (non era qui da molto), che abbiamo incorniciato in cucina; e poi, la rappresentazione teatrale di Aspettando Godot, che avevate portato a teatro e di cui abbiamo visto uno stralcio in occasione di uno di questi pranzi. Erano segni, che mi sono sempre portato dietro, di quel fiorire lento ma costante che osservavamo anche quando lo Zio veniva a Milano. Era bello averlo a pranzo e sapere che veniva da un posto dove stava bene; ci ha regalato alcune perle che fanno tuttora parte del nostro gergo familiare. Giusto una per rendere l’idea.

Papà: «Franco, cos’hai da essere così agitato, così paranoico?».

Risposta: «Eh, è la mia diagnosi!».

Game. Set. Match.


Cito anche una frase che ieri ha detto papà, osservando che negli ultimi tempi i viaggi a Milano si erano diradati: «Il fatto che venisse meno mi pesava, ma era un segno che lì (qui) stava bene». Era la sua nuova famiglia, e per vederlo affidato e felice abbiamo dovuto un po’ perderlo.


Concludo con un pensiero che mi martella dal giorno in cui ci ha salutato. Il giorno stesso o quello dopo mi è venuto in mente il verso di una canzone di De André. È tratto dall’album ispirato all’Antologia di Spoon River di E. Lee Masters, nella quale i cittadini di un piccolo villaggio americano, dopo la propria morte, parlano della loro vita. A parlare è un uomo bollato come “matto” e, come tale, morto. A un certo punto dice: «Qui sulla collina dormo malvolentieri / eppure c’è luce ormai nei miei pensieri…». De André glielo fa dire quasi senza importanza, come se non contasse e, visto il taglio della ballata (l’ho riascoltata ieri), meravigliosa ma disperata, egli stesso non ci crede.


Invece, ed è questo il pensiero martellante, se siamo qui oggi è perché abbiamo condiviso un pezzo della storia dello Zio dandogli importanza e perché lo possiamo immaginare nella Gloria, nella piena e completa espressione della sua bontà, profondità e, in generale “Ziofranchitudine” (ognuno la declini come vuole) ma in una versione inedita, una specie di 2.0, perché davvero, adesso, «c’è luce nei suoi pensieri», anche la sua mente, adesso, è finalmente chiara.


Carlo Ferrari



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